
La resilienza, una parola da memorizzare: significa essere capaci di prevedere e contrastare gli imprevisti. Facile a dirsi ma come fare? Sviluppare la voglia di sperimentare, di rischiare. E anche le aziende nella loro vision dovrebbero adeguarsi.
Nassim Taleb, l’autore de “Il cigno nero”, edito da Il Saggiatore, lo dice con estrema convinzione: “Bisogna imparare ad approfittare della casualità, dell’incertezza e del caos, anziché tenersene alla larga!”. Questo ci consente di diventare “antifragili”, visto che oggi non basta più essere “resistenti”, cioè solidi, tetragoni, e capaci di prevedere e contrastare gli imprevisti, e nemmeno “resilienti”, cioè capaci di opporsi agli stessi imprevisti, attraverso un comportamento dinamico, adattativo e consapevole. Chi è resistente e resiliente ha un problema: resta alla fine sempre identico a se stesso. L’antifragile no, lui è disposto a cambiare e migliora, cioè riesce a trarre vantaggio dalla volatilità, dal caso, dal disordine, dallo stress e, cosa fondamentale, ama il rischio, l’incertezza e l’errore.
Secondo Taleb, l’antifragilità è ciò che contraddistingue tutti i sistemi naturali e complessi che sono sopravvissuti nel tempo proprio grazie alla capacità di affrontare la volatilità, la casualità, lo stress. Stranamente, da un’ottica diversa, persino un teologo moderno e sensibile come Vito Mancuso, sostiene una cosa straordinariamente simile. Sono costretto a semplificare e banalizzare i suoi concetti piuttosto complessi (me ne scuso) ma egli individua il senso della vita in una formula particolarmente suggestiva: logos + caos = pathos. In altri termini, la ragione è importante per le scelte degli uomini ma deve confrontarsi con l’imprevedibilità e il disordine che ci circonda, che non sono di per sé negativi, in quanto ci consentono di esprimere a pieno la nostra libertà. Che, però, non è nulla se non siamo capaci di rischiare, di impegnarci, di metterci in gioco, attraverso la passione (pathos).
Eppure, la nostra cultura ha fatto di tutto per rendere l’economia, la politica, la salute, la famiglia dei sistemi fragili. Si è cercato e si cerca di disegnare modelli regolati sino nei minimi particolari e, proprio per questo, incapaci di resistere all’imprevisto. Genitori nevrotici e iperprotettivi – sostiene Taleb – spesso con l’intenzione di aiutare i loro figli, finiscono per danneggiarli. Se si calano dall’alto (top-down) le indicazioni e le regole da seguire, si impedisce la loro crescita, la loro capacità di confrontarsi con stress e disordine che potrebbero incontrare attraverso la propria esperienza diretta (botton-up). Lo stesso processo di scoperta, e quindi di crescita, nasce – conclude Taleb – più dalla voglia di sperimentare, di assumersi dei rischi (pathos), che da un’istruzione regolare. Oltretutto, si finisce per demonizzare qualsiasi tipo di errore, mentre si devono amare i propri errori, o perlomeno certi tipi di errori. La realtà è fatta di regole pratiche, di “euristiche”, che emergono proprio dai tentativi ripetuti e dagli errori compiuti.
E’ possibile applicare questa visione alle aziende? Certamente, più un’azienda diventa complessa più è portata a creare delle barriere difensive contro gli eventi negativi, che purtroppo non sempre sono prevedibili. Nel far questo è costretta a predisporre regole e principi, spesso complicati e rigidi, per affrontarli. Ma siamo proprio sicuri che questa sia la strada giusta? Non sarebbe meglio ricercare piuttosto la semplicità, come dice Taleb, anziché introdurre sistemi di regole complesse, che il più delle volte innescano una catena di effetti inattesi e, perfino, perversi? Anche in questa ottica, tutte le operazioni pubbliche che sono state recentemente condotte, talora anche spudoratamente, a favore di quelle imprese (dicasi banche), diventate così strutturalmente grandi da non poter fallire, sono sbagliate perché hanno trasferito in ambito collettivo delle fragilità che invece dovevano essere pagate in proprio dai sistemi che non hanno saputo affrontare le incognite.
E non basta dire, come fece Alan Greespan, che certe cose non sono mai accadute prima per giustificarsi. Bisogna mettere in conto che il peggio è sempre possibile e che l’imprevisto accade, per fortuna.
Una risposta a "Imparare dai propri errori? Non è un’eresia!"