Leader e umiltà: termini incompatibili? Forse, no

umiltaAbbinare la parola umiltà a quella di leadership, lasciatemelo dire, sembra un azzardo, addirittura una contraddizione in termini. Riuscite a immaginarvi un manager, che magari guida un’azienda di centinaia di collaboratori, che si comporta come San Francesco? Pronto a dispensare sorrisi, disponibile, aperto, semplice, modesto, rispettoso di chi gli è vicino, attento ai problemi di tutti. Insomma, quasi un santo… Difficile anche per chi è dotato di grande fantasia.

A certi livelli, per rappresentare il carattere dei manager di alto profilo, più che altro viene in mente l’immagine di uno squalo: freddo, insensibile, deciso, crudele, assetato di sangue, con una schiera di denti pronti non certo a sorridere ma a fare a pezzi la prossima vittima. Eppure c’è chi crede che in futuro, se non già adesso, per essere un buon leader occorra imparare ad essere umili. Non lo dice qualche esaltato idealista con la testa fra le nuvole ma Nitin Nohria, decano senior della Harvard Business School.

Secondo lo studioso americano le scuole manageriali dovrebbero insegnare tra le varie materie anche l’umiltà. Sempre ammesso che la si possa insegnare! Lui ne è convinto: “Ogni volta che assistiamo a episodi che decretano il fallimento etico di qualche persona (gli esempi nel nostro Paese, a livello politico e non solo, sono frequenti!) siamo portati istintivamente a ritenere che ciò è accaduto perché quella, in fondo, era una persona disonesta o cattiva. Per pigrizia o bisogno di semplificare ci piace ordinare il mondo in persone buone, oneste, con un carattere forte e positivo, e persone disoneste, cattive, fragili o deboli. Purtroppo, però – sostiene il professore di Harvard – anche le persone apparentemente oneste e corrette talora si comportano male. Cosa li spinge a farlo? Una radicata presunzione morale che impedisce loro di vedere i propri limiti e i propri difetti“.

Sempre secondo Nohria, bisogna anche sfatare un’altra leggenda: che il carattere di una persona si formi durante l’infanzia o l’adolescenza e che poi non sia più possibile modificarlo. Il carattere di un uomo non è immutabile; al contrario, si trasforma nel tempo allo stesso modo in cui cresce il nostro bagaglio di conoscenze e si sviluppa il nostro potenziale di “saggezza”, attraverso un processo lento e continuo. Conta relativamente poco la predisposizione d’animo. Una persona si comporterà bene o male a seconda del contesto in cui opera. Il fatto è che molti manager ripongono eccessiva fiducia nella loro forza di carattere, sicuri che sapranno fronteggiare ogni “tentazione”. Ed è proprio questa esagerata sicurezza in se stessi che spesso li porta a commettere errori che finiscono per mandare “a gambe all’aria” la loro immagine.

Quindi, una leadership è buona se è contemporaneamente anche umile. Ma cosa si intende per umiltà? Umiltà significa scegliere sempre la strada della verità. Anche e soprattutto per quanto riguarda la valutazione di noi stessi. Dobbiamo capire bene quali sono i nostri limiti e comprendere a fondo il nostro comportamento quando ci relazioniamo con gli altri: i collaboratori sono persone con le quali lavorare non strumenti da utilizzare per i nostri scopi. Se ci affidiamo solo a un unico punto di vista, il nostro, rischiamo di lasciarci sfuggire la visione di insieme di qualsiasi problema e ogni nostra decisione verrà presa in modo gerarchico e non relazionale. Questo atteggiamento, senza che ce ne accorgiamo, ci “taglia fuori” dal mondo e ci dà l’illusione di essere invincibili e perfetti, che è poi l’anticamera dell’insuccesso.

Non è solo Nohria a pensarla così. Un altro studioso della materia, Max De Pree sostiene che “la leadership è un’arte (che tra l’altro è il titolo di un suo grande best-seller). Qualcosa da imparare nel corso degli anni, non solo leggendo libri“. La leadership, secondo il sociologo, infatti, ha connotati più tribali che scientifici. E si sviluppa attraverso una faticosa tessitura di rapporti con gli altri piuttosto che come accumulo di informazioni. Procedendo nell’analisi, De Pree arriva a sostenere che i leader non appartengono a se stessi bensì a coloro che essi stessi guidano. L’errore più grave è proprio dimenticarsi di questa verità e creare una serie di filtri che li allontanano dagli altri, quando invece dovrebbero generosamente porsi al loro servizio.

Altro elemento importante che definisce l’umiltà é il continuo bisogno di imparare. E’ da arroganti pensare che una volta che è stata raggiunta una posizione di rilievo in seno a un organigramma siamo arrivati. E’ stupido sentirsi soddisfatti e appagati, perché nessuno è mai arrivato una volta per tutte. In un mondo di grandi trasformazioni come il nostro, pensare che non occorra più imparare nulla significa automaticamente cominciare ad essere esclusi dal gioco e restare irreparabilmente indietro. Una leadership non coltivata attraverso l’umiltà porta a scoprire subito le nostre debolezze (un proverbio un po’ volgare ma efficace lo sintetizza bene: “Più in alto sali più mostri il sedere!”). L’umiltà, vissuta con intelligenza e disciplina, aiuta a scoprire che c’è sempre una nuova prospettiva da cui osservare la realtà. Una prospettiva che ha il potere di renderci più liberi rispetto alle nostre idee e ai nostri pregiudizi che sono gli aspetti che alla fine ci condizionano di più.

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