*Articolo apparso originariamente su “Magistero”, rivista dei Maestri del Lavoro
Abbiamo un modello unico di “vita buona” alla quale possiamo riferirci oggi? Naturalmente no. Tutti sono più che convinti che il valore della vita abbia un senso differente a seconda delle persone. Anche senza dover introdurre i concetti – tanto odiati dalla Chiesa – di relativismo o nichilismo e restando con i piedi per terra possiamo constatare che il valore della vita ha un senso differente a seconda delle persone. C’è chi si ispira alla religione e chi predilige la riflessione laica, chi scommette tutto sul lavoro, o sullo sport, sulla famiglia e c’è anche chi si accontenta di internet o della tivù per passare il proprio tempo e dargli un qualche – seppur misero – significato. Ma c’è anche chi i valori li mescola, li shekera, in un sincretismo spesso assurdo ma per lui efficace, senza provare il ben ché minimo imbarazzo.
In presenza di tanti e così diversi punti di vista, come si può parlare ai giovani di un valore della vita? Questo pluralismo di vedute e di morali rende davvero difficile parlare di un valore condiviso della vita. D’altra parte, se qualcuno volesse presentarne uno, magari dall’alto della sua esperienza, passerebbe, oltre che per troppo audace, anche per arrogante e illiberale. I giovani potrebbero dirci: “Come si può essere tanto presuntuosi da voler dire agli altri in che cosa consiste il valore della vita?”.
D’altra parte, mi viene in mente una riflessione abbastanza ovvia: nessuno è tanto felice da poter dire agli altri, con la speranza di essere creduto, quale sia lo scopo giusto da perseguire nella vita. In effetti, chi meglio dell’interessato può sapere ciò che fa al caso suo e in cosa consista per lui il valore vero della vita? Il fatto è che il valore alla vita, l’uomo lo dà – e lo può dare – solo quando ne ha vissuto un bel pezzo.
Di solito, a metà percorso tra adolescenza e vecchiaia ci si fanno le domande classiche: cosa ho combinato, finora? Quello che ho fatto era ciò che volevo veramente: e si ripercorre mentalmente il film della propria esistenza: studio, amore, matrimonio, figli, lavoro, genitori, amici, religione, benessere economico. Quale di queste cose è stata più importante per me? Qual è stato il criterio di giudizio che mi ha portato a questa valutazione? Quale quella che veramente mi ha reso felice?
Aristotele proponeva il criterio dell’eudaimonia, che in genere in italiano traduciamo semplicemente felicità. In effetti, la definizione è riduttiva perché eudaimonia significa, come ci dice anche Amartya Sen, autorealizzazione, fioritura umana, corrispondenza ben riuscita tra desideri e risultati ottenuti. E questa mi sembra una definizione più corretta. E’ così che anch’io cerco e ho cercato di valutare la mia vita (ex post). Soddisfazioni che ho raccolto per le cose fatte su un braccio della bilancia, delusione e rimpianto per quelle mancate dall’altro, il tutto messo in relazione a un ideale di realizzazione di me stesso che in modo spesso confuso e impreciso mi sono venuto costruendo.
E tutto questo bagaglio di ricordi, ipotesi, teorie sono ogni giorno immersi nella quotidianità, in un esercizio di equilibrio che quasi sempre riesce ma che – soprattutto se si cerca di essere obiettivi – talora fallisce. Questa la si può chiamare filosofia. Filosofia spicciola di vita. Filosofia quotidiana. Ma aiuta a vivere e a capire, soprattutto se nel nostro bagaglio non portiamo preconcetti che rallentano il cammino.