A un certo punto della loro esperienza nell’ambito di una azienda, può succedere che i collaboratori vadano in crisi. Escludiamo dalle cause i fattori personali e vediamo che cosa può provocare un loro ridotto rendimento nelle prestazioni o quello che Isaac Getz chiama con una sorta di gioco di parole un «non impegno attivo».
Immaginate una barca a remi di otto uomini, voi e un altro leader nei due posti anteriori state remando energicamente. I cinque al centro di tanto in tanto immergono i loro remi in acqua solo per fare un po’ di spruzzi. L’ultimo uomo, nel frattempo, sta remando energicamente, ma in senso opposto rispetto al resto dell’equipaggio. E vi chiedete perché, nonostante gli spruzzi, la vostra azienda sembri in stallo?
E’ evidente che chi rema al contrario, va al più presto eliminato dal team. Ma quelli che immergono i loro remi nell’acqua facendo finta di remare perché lo fanno? Cosa innesca quel comportamento, quella reazione di disimpegno in loro?
Varie ricerche nell’ambito delle neuroscienze hanno evidenziato un modello, chiamato SCARF, codificato nel 2008 da David Rock, il quale afferma che cinque fattori organizzativi hanno un effetto negativo molto importante, ma spesso poco considerato, sulle reazioni umane sul luogo di lavoro.
Questi fattori sono:
- lo Status (la percezione di essere considerati migliori o peggiori di altri);
- la Certezza (la possibilità di prevedere eventi futuri e, quindi, poter programmare senza ansia la propria vita);
- l’Autonomia (il livello di controllo che le persone sentono sulla loro attività e la possibilità di decidere sul proprio lavoro con una sufficiente indipendenza);
- la Relazione (l’esperienza di far parte integrante di un gruppo e di condividere gli obiettivi con gli altri);
- l’Equità (o Fairness, il senso di essere rispettati e trattati in modo equo, soprattutto rispetto agli altri).
Quando il livello percepito da un collaboratore in merito a uno qualsiasi di questi fattori SCARF è basso, aumenta il senso di minaccia e turbamento. Anche se non lo esprime palesemente, la sensazione c’è o è latente, e spesso compromette la sua produttività e la volontà di mostrare impegno.
In altri termini, la persona, di fronte a determinate situazioni organizzative non favorevoli, riceve gli stessi messaggi di allerta e di pericolo di quando vengono messe in gioco le elementari strutture (minaccia e ricompensa) sulle quali fa affidamento per la sua sopravvivenza. A quel punto, nel suo cervello si attivano le stesse risposte “primitive”, le stesse reazioni fisiche (dolore) ed emotive a livello istintuale, che non sono facili da controllare e da reprimere.
Inoltre, quando una persona si sente minacciata – sia fisicamente che socialmente – il rilascio di cortisolo (l'”ormone dello stress”) influenza la sua creatività e produttività. Non gli è possibile, letteralmente, pensare in modo diretto, e questo aumenta la sensazione di essere minacciato.
Al contrario, quando viene premiato o si sente gratificato in qualche modo (ad esempio, quando riceve lodi per il suo lavoro) il suo cervello rilascia la dopamina – “l’ormone felice”. E, naturalmente, la persona vuole che questa sensazione duri più a lungo possibile o si ripeta! Quindi cerca altri modi per essere ricompensato di nuovo.
Per approfondire si veda: “SCARF: A Brain-Based Model for Collaborating With and Influencing Others“.