Guardando un qualsiasi filmato che mostra il viso di Dan Ariely, comprendiamo subito la forza d’animo e la determinazione di questa persona, che nonostante il gravissimo incidente di cui fu vittima quando era adolescente (il 70% del suo corpo era rimasto ustionato a causa di un incidente e trascorse quasi tre anni in ospedale sottoposto a dolorose terapie e interventi chirurgici) è diventato docente universitario, scrittore di successo e uno dei più importanti studiosi di motivazione. Il suo ultimo libro, edito da ROI edizioni, Macerata, intitolato “Perché”, cerca di spiegare proprio la logica nascosta delle nostre motivazioni.
E’ un libro interessante che per molti aspetti capovolge certe nostre convinzioni sulla natura delle motivazioni e apre nuovi scenari su questo mondo, profondamente umano e psicologicamente complesso, che alla fine è il motore principale di ogni cosa che decidiamo di fare.
Le forze emotive interiori della motivazione
La definizione di motivazione è per forza piuttosto semplice e, forse, banale: “l’atto o il processo di fornire a qualcuno una ragione per fare qualcosa”; e anche “la condizione dell’essere desiderosi di agire o lavorare”.
Leggendo il libro, scopriamo cose che intuitivamente sapevamo già, ma rafforzate dai risultati di esperimenti, test, ricerche affascinanti. Ad esempio, comprendiamo che il denaro non è il semplice e più immediato fattore di motivazione che molti pensano sia. Anzi, in certi casi, diventa un disincentivo (vedasi anche il nostro precedente articolo).
Oltretutto, il libro ci aiuta a scoprire quanto sia facile distruggere la motivazione delle persone quando ignoriamo, critichiamo, trascuriamo o demoliamo il lavoro degli altri. Motivazione che una volta distrutta è difficile da ricostruire.
Il libro ci fa anche capire quali siano le forze emotive interiori che rappresentano una spinta ben più efficace di tanti riconoscimenti esteriori. Pensiamo al bisogno di essere riconosciuti e di provare un senso di titolarità, di possesso o di soddisfazione nel risultato raggiunto. Oppure, trovare la sicurezza in un impegno a lungo termine, avendo ben presenti gli obiettivi ai quali si tende, o l’idea di scopo condiviso. Fino a riflessioni anche più profonde che riguardano la nostra innata esigenza di sentire che le nostre vite e il nostro lavoro sono in qualche modo importanti anche dopo la morte.
Immortalità simbolica ed effetto “Ikea”

L’autore parla del bisogno di ciascuno di noi di “Immortalità simbolica”. Cosa intende con questa affermazione? Rispondiamo con un’altra domanda. Chiediamoci come ci sentiremmo se sapessimo che tutto ciò che abbiamo realizzato nel corso della nostra vita verrà cancellato dalla faccia della terra nel momento in cui moriremo. Se sapessimo che tutto ciò che abbiamo scritto, creato, ogni nostro ricordo e ogni pensiero che altri hanno avuto su di noi, alla nostra morte semplicemente scomparirà senza lasciare traccia? In che modo questa informazione influenzerebbe la nostra vita quotidiana? Riusciremo a svegliarci ogni mattina sentendoci entusiasti di andare a lavorare, di creare, di prenderci cura della nostra famiglia ecc.?
Insomma, un libro impegnativo, anche se scritto in modo semplice e diretto, che spinge il Lettore a riflettere non solo sul lavoro ma anche sulla vita in generale. Don Ariely, inoltre, spiegherà che cos’è “l’effetto Sisifo”, che demolisce la motivazione, oppure “l’effetto Ikea”, che al contrario testimonia il valore che proviamo per le cose che siamo riusciti a costruire da soli e di cui possiamo vedere e “toccare con mano” l’esito finale. In questo senso, egli rivaluta la visione di Marx riguardo all’alienazione e all’importanza del fatto di essere significativamente coinvolti nel nostro lavoro per diventare più felici e più produttivi.
Eppure, oggi, sono una minoranza le persone veramente motivate. E, allora, l’autore risponde, sostenendo che ciò sia in parte dovuto al persistere di una visione del lavoro da era industriale che viene ampiamente accettata come realtà. Tale visione ritiene che il mercato del lavoro sia un contesto in cui gli individui forniscono lavoro (indipendentemente dal senso che può avere per loro) in cambio di salari e che le persone di solito non siano molto interessate all’esito di quel che fanno, a condizione di essere sufficientemente remunerate per svolgerlo.
Fino a che non verrà superata questa mentalità, che consiste nel vedere il lavoro come la mitica “fatica di Sisifo”, privo di alcun significato, e non si comincerà a trattare le persone che lavorano come individui unici, non semplicemente usarli ma apprezzarli e rispettarli per la loro creatività e intelligenza, le cose nelle aziende difficilmente cambieranno.