
Nel precedente articolo, abbiamo segnalato l’importanza di usare il pronome “noi” anziché “io”. Qualche nostro lettore ha suggerito che il “pluralis maiestatis” può anche essere interpretato come una forma di arroganza o presunta (o reale) superiorità, in quanto nella tradizione storica si riferisce ad un lessico utilizzato soprattutto da sovrani, papi (abbandonato di recente) e statisti.
Accettiamo la critica, arguta e intelligente, ma non dimentichiamo che il “noi” fu usato anche da Cicerone in numerose orazioni per dare enfasi ai suoi interventi. Un uso piuttosto ridicolo del “pluralis maiestatis” è senza dubbio quello del Primo Ministro inglese Margaret Thatcher che in un’intervista nel 1989 arrivò a dire: “We have become a grandmother” (“Siamo diventate nonna”).
Al di là del fatto che si usi il plurale per indicare che si sta parlando a nome di altri (popolo o divinità) è evidente che il “noi” utilizzato da un leader di un’azienda significa che chi lo pronuncia vuole essere più attento nei confronti dei propri collaboratori e, in qualche modo, renderli partecipi del proprio successo. Ma c’è di più.
Un team di ricercatori – Ewa Kacewicz, James W. Pennebaker, Matthew Davis, Moongee Jeon e Arthur C. Graesser – hanno analizzato l’uso dei pronomi da parte di individui in una varietà di contesti. La loro teoria è che i pronomi (prima persona, singolare o plurale) potevano fornire indicazioni sullo status di un individuo all’interno di un gruppo o di una gerarchia e consentivano di individuare la propensione di una persona a raggiungere uno status più elevato.
I pronomi che usiamo svelano la nostra insicurezza
L’uso dei pronomi è importante perché aiutano a indicare qual è il centro dell’attenzione di chi parla. Se le persone si sentono insicure, timide, sottovalutate, sono più propense a concentrare i propri pensieri, sentimenti e comportamenti verso l’interno e aumenta considerevolmente la percentuale di pronomi singolari in prima persona che usano nei loro discorsi.
Al contrario, i ricercatori hanno teorizzato che gli individui che usano il plurale (come “noi”) hanno una tendenza a dimostrare un focus esteriore, tenendo conto dei pensieri, dei sentimenti e dei comportamenti degli altri .
Lo status di una persona in un gruppo viene spesso conferito o legittimato dal gruppo stesso. Chi mostra una forte attenzione ai membri che compongono il gruppo (anziché a se stessi) raggiunge uno status più elevato. Coloro, invece, che sono focalizzati su se stessi, verrebbero accettati a malincuore dagli altri, anche se detengono posizioni di autorità.
Il pronome, quindi, è un piccolo segnale, ma importante!
Ricerche del genere sono state pubblicate anche sul Journal of Language and Social Psychology e confermano che gli individui con uno status inferiore tendono spessissimo ad usare pronomi singolari in prima persona, rispetto a individui con status superiore.
I risultati degli studi implicano che gli individui con uno status più elevato dimostrano un “orientamento verso gli altri” molto più spiccato degli individui con status inferiore. Allo stesso modo, gli individui di status inferiore appaiono più auto-orientati.
E’ evidente che non è facile capire se un orientamento verso gli altri sia la causa di uno status emergente o semplicemente sia dovuto al fatto di operare già in uno status più elevato. In entrambi i casi, tuttavia, i risultati ottenuti evidenziano una maggiore attenzione nei confronti degli altri da parte di coloro che cercano di fare carriera nelle loro organizzazioni.
Sia chiaro, ciò non significa che solo passando dall’“io” al “noi” possiamo diventare manager o leader di un’azienda. Però è importante ricordare che se spostiamo la nostra prospettiva da un atteggiamento egoistico o autoriferito a un atteggiamento più altruistico, che tenga conto dei bisogni e delle necessità degli altri, è possibile diventare persone, ma anche leader, migliori.