
Abbiamo rivolto alcune domande sul tema “Gerarchia e organizzazione” a Francesco Maiolo, professore all’Università di Roma3, Dipartimento di Scienze Politiche. Qui di seguito le sue risposte.
Temi trattati: La gerarchia è una necessità “naturale” per far funzionare un’organizzazione aziendale, a prevalente scopo di profitto? E il profitto è un mezzo o un fine? Il principio gerarchico – magnificato da chi ne trae vantaggi e osteggiato da chi ne subisce le conseguenze – può anch’esso trasformarsi da mezzo a fine e la volontà di persuasione diventare volontà di potenza, perdendo così di vista il valore sociale e politico dell’azienda. In ogni caso, prima di parlare di “democratizzazione” di un’azienda, si dovrebbe parlare della sua “repubblicanizzazione”.
Domanda: Gerarchia e organizzazione sembrano elementi correlati. Può esistere una organizzazione senza gerarchia?
Risposta: È difficile dare una risposta risolutiva a questa domanda nel senso che anche là dove riuscissimo nell’impresa è difficile colmare il divario tra teoria e pratica. Possiamo provare a mettere insieme dei frammenti e vedere che immagine viene fuori. Conviene partire dai dati più semplici per poi passare a quelli più complessi. Strada facendo potremo farci un’idea degli ostacoli che impediscono di concepire e mettere in pratica il progetto di un’organizzazione senza gerarchia. C’è chi, come il giovane Marx, ha rimproverato i filosofi per essersi limitati ad interpretare il mondo in modi diversi, invece di cambiarlo. Il problema, per altro noto allo stesso Marx, è che cambiare qualcosa senza comprenderlo è sempre un azzardo.

Nella sua accezione particolare la parola organizzazione è usata con riferimento ad una determinata categoria di enti sociali fondati sulla divisione del lavoro e delle competenze. In questa cornice, la funzionalità rispetto ad uno o più scopi fa la parte del leone. La cosa si palesa in modo inequivocabile, ad esempio, nell’ambito dell’organizzazione aziendale che è il processo di predisposizione in forma strutturata di un certo numero di risorse (umane, fisiche, economiche, informative etc.) al fine di realizzare gli obiettivi dell’attività imprenditoriale, fra cui, come tutti sanno, spicca il profitto.
La parola gerarchia denota una linea di comando verticale appannaggio di un ristretto numero di persone. Su tali presupposti, un conto è ritenere che organizzazione e gerarchia sono elementi legati da un certo grado di complementarietà, altro è affermare che l’organizzazione è impensabile senza la gerarchia. Sappiamo che molte persone, prese da preoccupazioni di carattere funzionale, ritengono che la gerarchia sia una necessità “naturale”. Si tratta solo di farla funzionare bene, in modo efficiente, cioè in modo tale da conseguire gli obiettivi prefissati. Questo è un tema di cui si discute da secoli in Occidente. Evidentemente esistono sentimenti contrastanti nei confronti del principio gerarchico, magnificato da chi ne trae vantaggi, e osteggiato da chi ne subisce le conseguenze. La percezione positiva o negativa del principio gerarchico è sempre lo specchio della nostra esperienza dei rapporti di potere. Alla base di questa polarizzazione c’è però qualcosa di più forte della mera contrapposizione tra vantaggi e svantaggi, ovvero un desiderare che si manifesta legato in modo indissolubile al piacere proprio e al dolore altrui.
Ragionando in termini di costi e benefici non riusciamo a cogliere ciò che si muove sullo sfondo dell’economia, e finiamo per averne un’immagine tanto asettica quanto deformante. Nel nostro rapporto con il principio gerarchico non è in ballo solamente il nostro modo di concepire i rapporti tra organizzazione e gerarchia, ma anche, se non soprattutto, le nostre prospettive di benessere. Non a caso ci si preoccupa di verificare se, e in che misura, può esistere un ordine organizzativo che riduca al minimo le ricadute più dolorose dell’applicazione del principio gerarchico inteso nei termini imperativi che sono quelli tipici in cui si esprime non la volontà di persuasione, ma la volontà di potenza.
Per comprendere che l’organizzazione può sussistere in assenza di gerarchia, a mio parere, occorre risalire al significato generale della parola, cioè pensare all’organizzazione come connessione dinamica e coordinata delle diverse parti di un insieme. Sul piano concettuale – che è bene non sottovalutare perché serve a portare luce là dove serve – questa definizione indica che l’insieme è prioritario. Dicendo questo, però, non s’intende affatto affermare che le parti sono sacrificabili. Tanto è vero che non si dà insieme senza parti.
L’organizzazione aziendale come noi la conosciamo subordina la vita dell’azienda stessa, che è un insieme, alla realizzazione del profitto, che è parte anche se nella mentalità corrente viene percepito come un tutto. Rispetto a questo tutto fittizio che è il profitto, la gerarchia può essere un’utile risorsa. Sennonché vale per quest’ultima quanto appena detto a proposito del profitto: da parte o mezzo può trasformarsi in tutto o fine. Quando si ragiona facendo leva sul concetto generale di organizzazione si scopre che quest’ultima ha come obiettivo primario la stabilità e la continuità dell’entità sociale che essa sostiene, il che significa l’integrità e il benessere delle sue varie parti. In questa prospettiva è richiesto non solo un atteggiamento di favore nei confronti di un tipo di gerarchia del tutto diversa da quella che s’incardina nel potere personale di comando, cioè nei confronti della “gerarchia dei fini”, ma anche la consapevolezza che confondere mezzi e fini può alla lunga pregiudicare la stabilità e la continuità dell’insieme.
A questo punto notiamo che sussiste un forte legame tra il concetto generale di organizzazione e quello di comunità politica. Scendendo dal generale al particolare, senza per questo annullare le differenze che pure esistono e sono notevoli, si può affermare non solo che nulla impedisce di concepire e vivere l’azienda come una comunità, ma anche che esistono dei punti di contatto tra la comunità politica e la comunità aziendale. Facendo leva su tali punti di contatto si può così certo insistere sull’aziendalizzazione della comunità politica, cioè dello Stato.
È una strada già intrapresa che, per molti aspetti, ha reso lo Stato come comunità politica peggiore. Si può allora fare uno sforzo d’immaginazione e cominciare a lavorare sulla traccia opposta: la “statalizzazione” dell’azienda. Ovviamente con questa espressione non s’intende dire che tutte le aziende debbano appartenere allo Stato o che quest’ultimo debba controllarle pur mantenendo la proprietà private delle stesse. Semmai, s’intendere dire che non c’è nulla che vieta agli imprenditori di concepire le proprie aziende come comunità politiche che hanno a cuore la continuità e l’integrità dell’insieme attraverso la cura delle parti.
La definizione classica dell’azienda come entità preordinata all’esercizio dell’attività d’impresa che a sua volta si configura come attività economica orientata al profitto e fondata sull’organizzazione di risorse produttive umane e materiali da destinare in modo professionale e sistematico alla produzione o scambio di beni o servizi consente di non ridurre l’azienda ad un’universalità puramente patrimoniale. Ciò dovrebbe indurre l’imprenditore a non vedersi nei panni del “monarca assoluto”. Così non è, il più delle volte. Il rapporto che generalmente instauriamo con la patrimonialità sembra non essere cambiato molto da quello descritto da Giuseppe Verga ne La roba (1880) o in Mastro-Don Gesualdo (1889). Mi chiedo, tuttavia, che senso ha parlare di “democratizzazione” dell’azienda senza aver prima provveduto alla sua “repubblicanizzazione”. È davvero impossibile concepire l’azienda come res publica? È proprio inutile pensare al bene comune dell’insieme aziendale? Si pensi al Modello Olivetti ad esempio. È una storia aziendale di successo per molti aspetti. S’è fatto di tutto nel corso degli anni per farla dimenticare. Allo stato attuale non possiamo che constatare che nel quadro della “monarchia aziendale” la realizzazione del lavoro da parte del “dipendente-suddito” porta ad una reificazione del suo prodotto che è tale da spingerlo a vedersi e a essere visto esclusivamente come merce. In questo contesto la perdita di senso dell’esistenza dell’odierno lavoratore continua a crescere in rapporto diretto con la “valorizzazione” delle cose che concorre a produrre. È inutile negarlo.
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3 risposte a "Prof. Francesco Maiolo (Università-Roma3). Gerarchia e organizzazione. La “repubblicanizzazione” dell’azienda"