
Abbiamo rivolto alcune domande sul tema “Gerarchia e organizzazione” a Francesco Maiolo, professore all’Università di Roma3, Dipartimento di Scienze Politiche. Qui di seguito le sue risposte.
Temi trattati: Siamo di fronte a una nuova schiavitù: la competizione universale. Socializzare oggi significa competere, misurarsi a vicenda. Occorre riscoprire cos’è il potere e come funziona. L’istruzione deve ridisegnare i rapporti tra sfera funzionale ed esistenziale. Fare impresa è vincere a spese della concorrenza. L’illusione del libero mercato: garantire l’equilibrio concorrenziale mentre tende al monopolio. Bisognerebbe intendere l’impresa come una gara sportiva, superando il rapporto (diabolico) che lega il piacere proprio al dolore altrui.
Domanda: Non siamo, comunque, di fronte a una palese contraddizione tra la richiesta di una maggiore autonomia e più ampia responsabilità dei lavoratori, e l’impossibilità di questi ultimi di partecipare in modo diretto o indiretto alla gestione aziendale?
Risposta: Ai lavoratori si chiede d’impegnarsi alacremente in una lotta per la sopravvivenza, solo che tale lotta viene privata delle tinte fosche che essa ha dei romanzi di Charles Dickens. Si indica loro il modello da seguire: quello della competizione universale. Siamo in presenza di una contraddizione se prendiamo sul serio l’appello alla maggiore autonomia e alla più ampia responsabilità. Se invece consideriamo tali appelli come una strategia di normalizzazione oppure, nella migliore delle ipotesi, come un generoso ma ingenuo tentativo di tappare le falle di un sistema che è stato promosso prepotentemente senza curarsi delle falle che produce, allora, non c’è contraddizione.
In generale i risultati su larga scala in termini di alienazione individuale e collettiva, e di reificazione dei rapporti sociali, sono sotto gli occhi di tutti. Il che non significa che tutti li vedano come un problema, o che ci sia un’uniformità di vedute sulle diagnosi e sulle terapie. La “liberazione” del lavoratore con la sua trasformazione in un “imprenditore di sé” ha funzionato a metà. L’auto-imprenditorialità ha emancipato solo in minima parte e a macchia di leopardo. Ha legato la socialità dell’individuo alla sfera di un immaginario in cui socializzare significa competere, calcolare e misurarsi a vicenda. Si tratta di una sfera ansiogena e regressiva in cui ciò che conta, fino al momento della definitiva usura psico-fisica ed economico-sociale, è la capacità di auto-riconfigurarsi.
È proprio il caso di dire che ad una vecchia schiavitù, quella disciplinare, si è sostituita una nuova schiavitù, quella della normalizzazione auto-referenziale ed egocentrica. Come parte integrante di un ingranaggio il lavoratore-imprenditore di sé è un pezzo di ricambio per altri pezzi di ricambio. Nella misura in cui saremo capaci di prendere le distanze dal modello funzionale-concorrenziale, o quanto meno di affinare una visione più prudente di quest’ultimo, anche il nostro desiderio d’impresa avrà la possibilità di aprirsi alla significatività che proviene dal mondo simbolico con cui pure la nostra mente, nonostante sia occupata su più fronti, si rapporta. Lo schema funzionale-concorrenziale prevede una dipendenza reciproca tra piacere proprio e dolore altrui. Bisogna riscoprire cos’è il potere e come funziona nella nostra immaginazione per giungere ad una più chiara visione del cammino che abbiamo intrapreso e di quello che ci aspetta. Per questa riscoperta però ci vuole anche un mondo dell’istruzione, dell’apprendimento e della formazione capace di ridisegnare i rapporti tra la sfera funzionale e quella esistenziale.
Il potere, nella sua accezione generale, è mera potenza, cioè capacità da parte di chi la esercita di ottenere dagli altri quanto desiderato, in modo spontaneo o coatto. Questa definizione generale fa capire che l’essere potente non solo garantisce una quantità di vantaggi, ma anche una certa quantità di piacere. E non è affatto da escludere che, a certe condizioni, questo piacere possa diventare il rovescio di una medaglia la cui altra faccia è, appunto, il dolore altrui. Non a caso, parlandone diffusamente, Agostino riprendeva dal suo maestro Ambrogio l’espressione libido dominandi. Il potere attira perché dà piacere, e in una certa misura quest’ultimo può scaturire dallo spettacolo della sottomissione o della sconfitta altrui. A noi sembra, erroneamente, che il piacere scaturito dai vantaggi materiali associati alle posizioni di potere sia per definizione incompatibile col dolore. Non è così. Non a caso spesso l’interruzione della visione della sofferenza o del disagio altrui diventa destabilizzante. Ed ecco anche perché ci si espone a prove assai difficili, a sacrifici pesanti, persino ai pericoli, pur di recuperare gli spazi di piacere perduti.

Max Weber metteva in relazione il potere cementato dagli interessi, che si realizza nella sua forma più pura all’interno delle libere relazioni di mercato, e il potere costituito in virtù dell’attribuzione di autorità, che si concretizza nella sua forma più pura all’interno di strutture che per definizione sono designate a garantire l’ordine e la pacifica coesistenza all’interno della comunità politica. Weber, fra l’altro, ha anche ricordato che la figura paterna nel vecchio modello di famiglia patriarcale è stata a lungo considerata analoga a quella di un principe in ambito politico. Quest’analogia è viva e vegeta, e continua ad esercitare una forte ascendenza, sebbene siano cambiati i connotati di genere. A seguito del collasso della Lehman Brothers nel settembre del 2008 e dell’effetto-domino che ne è seguito, la cancelliera Merkel s’affrettò a redarguire Wall Street contrapponendogli l’oculatezza e la parsimoniosità della schwäbische Hausfrau – la “casalinga sveva” – salvo poi dover correre ai ripari constatando l’esposizione degli istituti di credito tedeschi che avevano operato sul mercato finanziario in modo analogo a quelli anglo-americani. Molto prima della Merkel l’equiparazione fra economia domestica e finanza pubblica era stata uno dei cavalli di battaglia di Margaret Thatcher. Tale visione, per molti aspetti strampalata, ha avuto molto successo.
Ad ogni modo, Weber sottolinea ciò che molti si ostinano ad eludere, ovvero che la concorrenza non è affatto un carattere indefettibile del mercato e non per via dei nemici esterni – il socialismo in tutte le sue forme – ma per un dato congenito: l’optimum al quale tende il libero dispiegamento del potere di mercato è il monopolio. Il che significa che il libero mercato lasciato a se stesso non garantisce necessariamente alcun equilibrio concorrenziale. Anzi, prevede il legame fra il massimo di piacere proprio a fronte del massimo di dolore altrui. Dicendo che senza libero mercato non ci può essere concorrenza, il che empiricamente è vero, si vuole far credere che il libero mercato è capace di mantenere automaticamente livelli accettabili di concorrenza interna, il che empiricamente non è vero. L’una cosa non implica automaticamente l’altra. La posizione “dominante” sul mercato è ciò a cui tende chi opera economicamente, è il sogno più eccitante che si possa nutrire. E questo è il tipico esempio di un piacere che è intimamente legato al dolore o alla perdita altrui. La cosa non si deve manifestare attraverso esibizioni sguaiate. Si può rimanere impassibili rispetto al dolore altrui. Si può ignorare totalmente il danno che produce la scomparsa di tante piccole aziende a causa del proprio modus operandi. Gli imprenditori intellettualmente onesti non hanno difficoltà ad ammettere che uno dei motivi che li spinge a fare impresa è proprio l’idea di vincere a spese dei concorrenti, cioè a conquistare sempre più grandi fette di mercato a danno di altri.
Possiamo facilmente notare come nel mondo dello sport ancora oggi il piacere della vittoria non è così fortemente legato alla visione della sconfitta altrui. Secondo la corretta antropologia culturale sportiva chi perde – e la sconfitta è per definizione transitoria – viene rispettato e salutato in attesa della prossima avventura. Chi perde non viene mai ignorato da chi vince. Qui non si tratta di ribadire che “l’importante è partecipare”. Semmai si tratta d’intendere la competizione in un modo diverso dal solito. Perché si fatica a credere che il sogno d’impresa, e quindi di successo, non possa svilupparsi in modo analogo a quanto ancora avviene nello sport? Il sogno d’impresa può certamente svilupparsi allentando il nodo che lega piacere proprio e dolore altrui. Non è impossibile mutare questo quadro e rieducare il piacere proprio a non dipendere dal dolore altrui.
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3 risposte a "Prof. Francesco Maiolo (Università-Roma3). Gerarchia e organizzazione. L’impresa come competizione sportiva?"