Da qualche tempo, si parla di fase 2 per il Covid-19. Quasi tutti pensano di esserci arrivati. Ma la fase 1 – quella dello shock iniziale, dell’emergenza, delle decisioni prese al volo e “senza rete” – non possiamo dire purtroppo che si sia davvero conclusa per tutte le aziende.
Le nostre vite sono state sconvolte da questa pandemia e metabolizzare tale esperienza non sarà facile né rapido per nessuno.
Gli imprenditori si sono dovuti assumere rischi imprevisti, hanno dovuto affrontare scenari mai immaginati, hanno adottato soluzioni di emergenza con poco tempo a disposizione per valutare rischi e vantaggi, senza disporre di informazioni necessarie, in un clima di consapevolezza e responsabilità molto limitate.
Anche i lavoratori, dal canto loro, specie quelli in prima linea, hanno attraversato momenti di difficoltà, tra comunicazioni spesso contraddittorie, obblighi e precauzioni sanitarie, esperienze nuove come il lavoro da casa, con ripercussioni sui rapporti famigliari, preoccupazioni per il proprio futuro lavorativo, in una situazione di estrema incertezza e stress.
A ciò si aggiunga, oltre al dolore per le vite umane perse a causa di questa pandemia, il fatto che si sta soffrendo anche perché ci rendiamo conto che le cose difficilmente torneranno come erano prima. Il cambiamento è avvenuto sopra le nostre teste. Ora, siamo in mezzo al guado.
Gestire la transizione
Ci siamo facilmente abituati a partecipare alle videoconferenze, che in questo periodo hanno spesso funzionato più da aiuto psicologico che da aiuto concreto (riconosciamolo). Ma questa fase 2 deve rappresentare il momento per operare una riflessione molto più pragmatica verso il futuro. Probabilmente, non ne siamo ancora in grado, ma occorre provarci.
Secondo William Bridges, studioso del fenomeno del cambiamento e autore del libro “Managing Transitions”, stiamo attraversando quella che lui chiama la “zona neutrale”, un momento ancora incerto, pieno di confusione, tumulti interiori, ma anche di opportunità. Anche se, come ovvio, tutte queste fasi non avvengono secondo sequenze definite o tempismo perfetto.
Secondo lo studioso, il cambiamento è sempre situazionale, cioè riguarda un fatto, un episodio, come quello del Covid-19, che è stato rapido e globale, senza che alcuno vi si potesse opporre in alcun modo. Al cambiamento, sempre secondo Bridges, deve corrispondere una fase di transizione che riguarda le persone coinvolte e che essenzialmente comporta un aspetto soprattutto psicologico. Solo così il cambiamento potrà essere controllato.
In altri termini, non basta riorganizzare quello che stavamo facendo prima della pandemia, ma occorre ripensare alle persone coinvolte, ai loro sentimenti, alle loro emozioni, ai rapporti umani che vanno gestiti, tenendo conto dei cambiamenti che sono avvenuti soprattutto nella testa delle persone.
Se vogliamo dare una definizione di transizione, potremmo dire che si tratta di un processo interno, di un nuovo orientamento, che deve favorire un periodo di adattamento durante il quale i collaboratori devono venire a patti con le conseguenze degli eventi scaturiti dal cambiamento stesso.