Qualche nota storica, senza presunzione di approfondire temi troppo grandi per le nostre forze. Ci limitiamo a riportare a ruota libera alcune affermazioni sul lavoro e sul taylorismo da Lenin a Gramsci, lasciando ai lettori eventuali approfondimenti.
Lenin aveva fatto tradurre il libro di Taylor, uscito nel 1911, “The principles of Scientific Management” e ne era rimasto affascinato. Naturalmente lo aveva criticato perché, secondo il suo punto di vista, era un sistema che dimostrava la raffinata brutalità del capitalismo, ma allo stesso tempo riteneva che fosse una “delle più grandi conquiste scientifiche nel campo dell’ottimizzazione dei tempi di lavoro, perché consentiva l’eliminazione dei movimenti superflui e scomodi, lo sviluppo di metodi corretti di lavoro, e l’introduzione di migliori sistemi di contabilità e di controllo”.

Quindi, al di là delle affermazioni generiche di taglio propagandistico (“il taylorismo asservisce l’uomo alla macchina”, “è un sistema scientifico per spremere sudore”), Lenin, pur mostrando sdegno per la riduzione dell’operaio a puro accessorio della macchina all’interno di un processo produttivo di cui perde la comprensione, al tempo stesso ammira la razionalità, l’efficienza e l’ordine che il taylorismo realizza, per il principio di autorità che instaura sulla base delle conoscenze acquisite, per la scientificità raggiunta (Bartocci, 1983)
Ecco perché il taylorismo, liberato dalla mala erba del capitalismo, viene trapiantato nel sistema sovietico, attraverso il cosiddetto Not, ovvero ‘Noricnaja Organisetsja Trudd‘, “Organizzazione Scientifica del Lavoro” che non mancò di suscitare critiche, come l’approccio restrittivo e troppo limitato alle singole operazioni, la formazione professionale troppo parcellizzata e l’eccessiva professionalizzazione, per la quale gli operai non erano mai coinvolti in prima persona.

Gramsci, al contrario di Lenin, pensava che non fosse corretto “Sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che richiedeva una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico-macchinale”.
Qui Gramsci sembra allontanarsi dalla teoria marxista dell’alienazione del lavoratore per cercare di ridare significato vero al lavoro come momento di realizzazione dell’uomo non come condanna e causa di schiavitù e sfruttamento. Resta, peraltro, la critica nei confronti di un certo tipo di lavoro, quello industriale, quello della produzione di massa che aliena il lavoro da sé stesso e fa perdere qualsiasi funzione creatrice e contributo umano di chi presta l’opera.

Le critiche al sistema tayloristico americano arriveranno una cinquantina di anni dopo anche dal fronte dell’imprenditoria. L’industriale giapponese Konosuke Matsushita, fondatore della Panasonic, affermerà: “Per voi (chi applica i principi tayloristici), l’essenza del buon management è far uscire le idee dalla testa dei capi e metterle nelle mani dei lavoratori. Noi siamo oltre il modello taylorista. Il business…. è ormai così complesso e difficile, e la sopravvivenza delle imprese così in bilico e piena di pericoli, che la loro esistenza continuativa dipende dalla mobilitazione quotidiana di ogni oncia di intelligenza (presente in azienda)… Noi intendiamo la gestione come l’arte di saper mobilitare il potenziale intellettivo di tutti i collaboratori di un’impresa ed unificarlo”.
E oggi?