L’evoluzione non è la sopravvivenza del più forte

Team Human” di Douglas Rushkoff – edito Ledizioni, 14,90€ – è un libro che va letto.

Un libro che in modo piano e per nulla polemico ci fa capire, come sostiene l’antropologa Margaret Mead che il tratto caratteristico della civiltà umana non sono gli oggetti rituali e le armi per cacciare, ma la capacità che abbiamo di prenderci cura gli uni degli altri.

L’autore ci piace anche perché ha una visione non gerarchica e conflittuale del rapporto tra gli uomini – come riportiamo in una citazione sotto. Condividiamo in pieno, soprattutto in questi momenti di pandemia, il pensiero di Angelo Paura nella prefazione del libro:

Sopravvivere oggi é uno sport di squadra e credo sia importante che i governi di tutto il mondo mostrino di aver capito questa lezione e si impegnino a cooperare, mettendo da parte la tentazione di isolarsi e usando la tecnologia come abbiamo sempre fatto, trattandola come quell’insieme di strumenti per amplificare il potere delle nostre menti, non come un freno o una gabbia.

L’evoluzione non è la sopravvivenza del più forte

Siamo stati indotti a credere nel mito che l’evoluzione riguardi la competizione: la sopravvivenza del più forte. In questa prospettiva, ogni creatura lotta contro tutte le altre per poche e scarse risorse. Solo i più capaci sopravvivono per trasmettere i loro geni superiori, mentre i più deboli meritano di perdere ed estinguersi.

Ma l’evoluzione riguarda tanto la cooperazione quanto la competizione. Le nostre cellule sono il risultato di un’alleanza nata miliardi di anni fa tra i mitocondri e i loro ospiti. Gli individui e le specie prosperano elaborando strategie per sostenersi e sopravvivere mutualmente.

La sopravvivenza del più forte è un modo conveniente per giustificare l’etica spietata di un mercato, un ambiente politico e una cultura basati sulla competizione. Ma questa prospettiva è fuorviante rispetto alle teorie di Darwin e dei suoi successori.

Osservando l’evoluzione attraverso una lente strettamente competitiva, perdiamo il vasto paesaggio storico dello sviluppo sociale e ci risulta difficile vedere l’umanità come una grande squadra interconnessa”.

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