Ormai siamo abituati alle riunioni virtuali, su Zoom o altre piattaforme. All’inizio, c’è il solito check-in, con le consuete domande d’obbligo che riguardano soprattutto aspetti tecnici: “L’audio e il video funzionano correttamente?”.
Poi chi conduce la riunione entra subito nel merito dell’argomento da trattare. Noi che abbiamo sempre auspicato riunioni snelle, efficaci, mirate e non dispersive (come talvolta in passato capitava in quelle dal vivo) siamo contenti che gli strumenti tecnologici che abbiamo a disposizione ci abbiano costretto ad essere più razionali e concreti.
Per quanto mi riguarda, mi sono reso conto che i turni di parola sono più rispettati e in genere rientrano nei termini di tempo previsti. Sono rari i monologhi eccessivi e gli accavallamenti. Lasciando a tutti i partecipanti la parola, anche gli introversi possono dire la loro. I ragionamenti sono meno confusi e “a braccio”, richiedendo un minimo di preparazione. Anche se spesso non si ha il tempo per farla. In sintesi, si ottiene una maggiore partecipazione e, se la riunione è organizzata e condotta da una persona preparata, si può anche arrivare a conclusioni utili, valide e realmente produttive per tutti.
Tutto parte da un aggettivo
Quindi, tutto OK? Forse no. C’è chi non dimentica il lato umano delle persone e, in questi momenti non troppo facili per nessuno, con la pandemia ancora alla porta, cerca di coinvolgere i partecipanti alle riunioni, spingendoli ad aprirsi e ad esprimere i loro sentimenti. E’ successo con il presidente di una azienda che, rompendo un po’ tutti gli schemi, ha iniziato la riunione chiedendo ai partecipanti di scegliere un aggettivo che descrivesse nel modo migliore come si sentivano in quel momento e che lo condividessero con gli altri.
Dopo un iniziale smarrimento, ogni membro, chi più chi meno, si è lasciato andare a definire il proprio stato d’animo in quella circostanza. E gli aggettivi sono stati i più diversi: eccitato, ottimista, frustrato, triste, preoccupato, ecc. E ognuno ha cercato di spiegare il perché di quella scelta. Forse non sempre è giusto iniziare una riunione virtuale in questo modo, ma in una situazione come quella che stiamo vivendo la trovata del presidente in questione potrebbe essere quella più azzeccata.
Quante volte chiediamo ai nostri colleghi “Come stai?” e non ci viene nemmeno in mente che quelli possano davvero risponderci, esprimendo spontaneamente il proprio stato d’animo reale? Ci attendiamo risposte formali ed evasive, nulla di più. Anche per ragioni di riservatezza e di privacy. Oggi, che ognuno partecipa in genere a queste riunioni da una stanza di casa sua, è ancora giusto mantenere le distanze? Quando magari nel locale accanto la moglie è a letto con la febbre o il figlio ha appena chiesto di giocare con lui?
E’ troppo rischioso mescolare il privato con il lavoro?
O, forse, in certi casi è opportuno correre questo rischio? Non ci sono risposte giuste. Certo è che mentre una persona, alla domanda del presidente, esprimeva le sue sensazioni gli altri erano costretti ad ascoltarlo, comprendendo quello che stava provando in quel momento. Informazioni inutili, superflue, troppo personali? Forse, però importanti se permettono di interpretare meglio il comportamento che terrà nel corso della discussione, di capirlo più a fondo, di giustificarlo, perfino.
Quante volte ci siamo trovati di fronte ad atteggiamenti di colleghi che non riuscivamo a comprendere perché non rientravano nel loro normale comportamento? Se solo avessimo saputo cosa li turbava o li preoccupava in privato, forse ci saremmo anche noi comportati diversamente… E, forse, anche loro sarebbero stati più accondiscendenti e disponibili.
L’argomento è di quelli delicati. Il presidente di cui sopra sostiene che occorre essere più umani, più aperti all’ascolto se vogliamo avere collaboratori dai quali ottenere maggiore comprensione e cooperazione. In fondo, non dimentichiamoci che con le riunioni da remoto entriamo nelle case dei nostri collaboratori e non possiamo far finta di nulla…