Combattere il bullismo in azienda conviene a tutti

Non sappiamo se il fenomeno del bullismo nelle aziende venga studiato a sufficienza nel nostro Paese. Ne dubitiamo fortemente, anche perché ben altri sono i problemi ai quali le imprese devono far fronte in questo periodo e quelli che riguardano i rapporti con e tra i dipendenti spesso finiscono in secondo piano.

Riferiamoci, allora, ad alcuni dati che ci arrivano da ricerche svolte nel 2021 negli Stati Uniti dal Workplace Bullying Institute (WBI) che ci dà una rappresentazione decisamente preoccupante del fenomeno. Ecco qualche dato.

Il 30% dei lavoratori statunitensi ha dichiarato di essere vittima di bullismo, in netta crescita rispetto alla stessa rilevazione di cinque anni prima (19%). Vediamo cosa intendono per bullismo questi ricercatori.

Cos’è il bullismo

Il bullismo è un modello di maltrattamento ripetuto, una condotta abusiva o una forma di sabotaggio sul lavoro tendente ad umiliare, intimidire e danneggiare chi ne è vittima, causandogli sia danni fisici sia un crescente stato di angoscia mentale che interferisce pesantemente anche sulla capacità di lavorare, sul tasso di assenteismo e di dimissioni e crea danni gravi alla reputazione dell’azienda.

Da questa prospettiva possiamo chiederci legittimamente: Cui prodest?”, cioè a chi conviene il bullismo? Chi ha condotte offensive, intimidazioni, aggressioni nei confronti di un’altra persona lo fa sempre per uno scopo (carriera, potere, ma anche per puro sadismo) e può essere un collega pari grado, anche se è più frequente che sia un superiore.

Questo atteggiamento, quindi, indipendentemente da chi lo pratica, porta solo a risultati negativi: per le persone che lo subiscono, naturalmente, ma anche per chi ne è testimone, e, come abbiamo già detto, per le stesse aziende che rischiano di diventare meno competitive.

Il bullismo rende “tossici” i luoghi di lavoro

Il bullismo infatti rende i luoghi di lavoro sempre più “tossici” e questo sarebbe uno dei motivi che ha scatenato il fenomeno, per alcuni inspiegabile, della “great resignation”, cioè le dimissioni in massa dei lavoratori, insoddisfatti – più che dei loro compensi – dell’atmosfera opprimente che vivono nei loro luoghi di lavoro.

In altri termini, se in un’azienda si tollera o si minimizza il bullismo (sotto qualsiasi forma si manifesti) si crea un contagio negativo che influenza anche coloro che non ne sono rimasti invischiati. Il clima peggiora rapidamente e tutti percepiscono tale cambiamento.

A cosa è dovuto questo aumento del bullismo sul posto di lavoro? Secondo alcuni ricercatori una delle cause potrebbe essere lo smart working: “Quando si elimina il faccia a faccia, e la supervisione diventa, per così dire, “disincarnata”, il livello di aggressività aumenta considerevolmente”. E’ provato che le persone sono meno propense ad autocensurare alcuni comportamenti quando si trovano on line.

Ricorso allo smart working e disinibizione on line

E’ il cosiddetto fenomeno noto come “disinibizione online”. Questo non vale solo quando le persone operano nell’anonimato. Ma anche quando si conoscono ma lavorano a distanza e in comunicazione asincrona. Insomma, quando ci si trova dietro ad uno schermo si è più propensi a dare sfogo a questo tipo di comportamento che può diventare conflittuale e sfocia in atteggiamenti di vera e propria inciviltà informatica.

Probabilmente, la pandemia costringendo ad accelerare i tempi di applicazione di questo sistema di lavoro da remoto, o ibrido, ha spinto le organizzazioni a non gestire con la necessaria attenzione e cautela questa innovazione.

Il lavoro da remoto ha reso in un certo senso più liberi i dipendenti ma ha creato nel contempo qualche problema a supervisori o manager che si sentono indeboliti nel loro ruolo e costretti ad aumentare la propria aggressività per ribadire la propria autorità.

Il problema è che non “si stacca mai” dal lavoro…

D’altro canto, il lavoro da remoto ha reso sempre più labili i confini tra ufficio e casa. Diventa sempre più difficile separare la vita personale da quella lavorativa. Le tensioni nei rapporti con colleghi e superiori che prima era possibile accantonare una volta rientrati a casa, ora seguono ovunque il lavoratore e lo condizionano molto più pesantemente, favorendo l’intrusione in aree più sensibili degli aspiranti bulli.

Per fortuna, c’è anche un altro motivo che sta alla base della crescita del fenomeno del bullismo. Oggi, con l’avvento di una maggiore sensibilità su questi temi, è aumentato il numero di collaboratori che reagiscono a tali forme di aggressione e sono pronti a denunciarle, superando l’imbarazzo o la connivenza frequente in passato.

Un ruolo importante in tal senso ce l’ha anche la nuova generazione che è cresciuta recependo a scuola i messaggi anti-bullismo e non è più disposta a minimizzare certi atteggiamenti. Oltretutto, i giovani oggi tengono molto al rispetto per il loro lavoro e, più che al guadagno, sono attenti a preservare un sano equilibrio tra lavoro e vita privata.

Le aziende non sempre sono sensibili al tema del bullismo

Un dato che ci arriva da un sondaggio effettuato lo scorso anno nel Regno Unito preoccupa non poco. La metà dei lavoratori britannici è convinto che la propria organizzazione di lavoro non prenda sul serio le denunce di bullismo. L’intervento dei datori di lavoro per bloccare questo fenomeno, nel 63% dei casi ha addirittura contribuito a rafforzare l’abuso.

Non solo, infatti, veniva negata l’esistenza di comportamenti scorretti, ma in alcuni casi essi erano giustificati, o addirittura incoraggiati, considerandoli legati a una certa cultura della competitività richiesta dal mercato.

Da notare, che il fenomeno del “bullismo” in genere cessa non tanto per l’allontanamento dell’autore del reato, quanto per il cambiamento della politica dell’azienda, che si orienta verso il rispetto delle persone e dei loro ruoli e favorisce la creazione di un clima nel quale il bullismo, sotto qualsiasi forma si manifesti, sia considerato sempre inaccettabile.

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