Complice la pandemia e le innovazioni tecnologiche – che hanno imposto il ricorso al lavoro da remoto col fine di mantenere il “necessario” distanziamento sociale – sembra ormai che anche la storia del lavoro umano sia destinata a prendere un’altra strada.
Se il lavoratore è avulso dal suo posto di lavoro, la sua prestazione finisce per diventare una pura funzione produttiva. In altri termini, quello che conta di più è che il lavoratore offra le prestazioni richieste, indipendentemente dall’ambiente in cui si trova ad operare.
Ma questa è un’idea corretta del lavoro? Secondo il sociologo Pierpaolo Donati no. Il lavoro non può essere una semplice operazione economica “prestazionale”, che si esaurisce in sé, ma deve essere intesa come una relazione sociale, cioè un rapporto che si instaura con gli altri, con la realtà dell’azienda, con la sua organizzazione, collocata in un luogo preciso.
In altri termini, il lavoro dovrebbe legarci al nostro ambiente culturale e sociale, permettendoci di valorizzarlo ed esserne valorizzati. Altrimenti, si rischia che non abbia più senso.
Il lavoro “decontestualizzato” priva chi è costretto a ricorrervi delle prerogative di cittadinanza, cioè di quei diritti e doveri che gli consentono di considerarsi realmente integrato in una società civile, in una comunità umana. Questa situazione di isolamento impedirà alla persona di esprimere tutte quelle qualità che si sviluppano solo entrando in relazione con gli altri.
Nessuno nega che il lavoro da remoto abbia portato anche dei notevoli vantaggi. Pensiamo al risparmio di tempo dovuto al trasferimento da casa al luogo di lavoro, e alla razionalizzazione di certi meccanismi relazionali, spesso pletorici, che favorivano un improduttivo uso del tempo. Si è pensato, a questo punto, che il tempo così “guadagnato” sarebbe tornato utile per sé stessi e per la cura dei propri cari.
Purtroppo, ciò è avvenuto raramente. Lo stress infatti non è affatto diminuito, i confini tra tempo di lavoro e tempo personale si sono fatti sempre più labili, le ore lavorate sono aumentate a parità di salario e, come già accennato, chi lavora con questo sistema ha continuamente la sensazione di isolamento e il rischio di non sentirsi più parte di quella forma di comunità che è l’azienda.
Il lavoro si aliena allo stesso modo in cui si aliena la persona che lo fa. Il tutto per rispondere a un’idea gretta e meschina, che è quella produttivistica ed efficientista che è la cosa che più interessa all’impresa. Inutile chiedersi a questo punto a chi convenga isolare i lavoratori.
La soluzione? Nel libro “Smart Working Reloaded” di Luca Pesenti e Giovanni Scansani qualche suggerimento che ci sentiamo di condividere.
“Occorrerà riprogettare le organizzazioni, ripensare i ruoli, concepire il management fuori dalla logica moderna comando-controllo ma dentro l’idea di un modello produttivo costruito per fasi, cicli e obiettivi misurabili e dunque valutabili.
L’organizzazione agile dovrà essere costruita a partire dalla fiducia, dalla libertà di chi lavora di scegliere se e in che misura avvalersi di modalità di lavoro da remoto, dalla capacità di tenere vive le relazioni e di non svuotare di significato i luoghi del lavoro, che sono anche elementi essenziali dell’identità di chi ci lavora.
Se così sarà, anche il lavoro agile potrà concorrere a umanizzare il lavoro, salvandolo dalle logiche dis-umanizzanti e immunizzanti del lavoro digitalmente modificato. Una sfida di civiltà, insomma”.