
La mitezza è un valore che si è andato perdendo. Spesso, oggi parliamo di mitezza come fosse un atteggiamento passivo, una debolezza, quasi una viltà, un comportamento del tutto inadeguato ad affrontare la realtà di ogni giorno che è dura, arcigna e che pretende persone sempre sul “chi va là”, pronte a difendersi, a reagire, che vedono nell’altro il nemico da eliminare.
Il filosofo Remo Bodei (Bodei, Givone “Beati i miti perché avranno in eredità la terra”) dà risalto alla forza e all’audacia di tale valore, che rende chi lo incarna capace di controllare le proprie passioni, di resistere al male con fermezza e senza scoraggiarsi, rinunciando all’ira, alla violenza e alla vendetta a quello che alcuni chiamano il “monoteismo dell’io”.
La mitezza si basa sull’idea della tradizione benedettina di ‘honorare omnes homines‘, cioè avere un atteggiamento «disarmato» con il quale rapportarsi agli altri e che serve a costruire una società alternativa rispetto a quella in cui c’è la crisi della convivenza e dell’accoglienza.
Partiamo dall’etimologia del termine “mitezza”
Mitezza è un termine che viene dal latino mitis, che significa “tenero, maturo”, detto dei frutti quando sono buoni da mangiare, cioè non sono più acerbi ma nemmeno troppo maturi. Anche in questo comportamento, quello che conta è l’equilibrio tra due modi di essere:
- Quello passivo, condizionato da una costante ricerca di approvazione da parte degli altri di cui si subisce l’influenza, per risultare graditi a tutti i costi ed evitare la cosiddetta “ansia sociale”. Atteggiamento questo, pagato in genere con un alto livello di sudditanza, scarsa considerazione e anche umiliazione.
- Quello aggressivo, basato quasi esclusivamente sulla necessità di far prevalere le proprie esigenze e bisogni personali, anche a costo di prevaricare gli altri. Atteggiamento che porta alla strumentalizzazione del prossimo e che puntando ad ottenere il predominio relazionale crea relazioni difficili e conflittuali.