Ci sembra utile stralciare dal libro “L’impresa enciclopedia” di Gianfranco Dioguardi, con prefazione di Federico Butera, edito da Guerini NEXT, un brano davvero illuminante su come viene intesa la cultura nella società di oggi.
(…) Viviamo purtroppo un’era caratterizzata da una vera cultura sempre più lontana dalla gente comune, plagiata com’è dai mezzi di informazione di massa che intendono assopire la curiosità e il godimento culturale sostituendoli con un’eccessiva erogazione di informazioni spicciole accompagnata da svaghi banali che occupano il tempo e non la mente.
Talk show: vetrine autoreferenziali
Per contro, fioriscono sia pure metaforicamente specifiche agorà e talk show dove politici, tecnologi, scienziati e più in generale uomini di cultura godono nel dissertare esclusivamente fra di loro, con spirito egocentrico e con un linguaggio da iniziati spesso poco comprensibile anche nell’ambito delle loro stesse congreghe.
La cultura solo come spinta al consumismo nell’interesse delle imprese
Le istituzioni economiche si sono attribuite come fine prioritario quello di elevare il tenore di vita della gente privilegiando il potere di acquisito dell’individuo nell’ambito di un regime consumistico, con conseguenti e auspicati benefici per il sistema economico generale e, quindi, per il sistema delle imprese.
Dove sono le vere emozioni che stimolano la cultura?
Ma hanno abbandonato completamente l’individuo sul piano culturale, facendogli perdere ogni stimolo per la conoscenza, uniformandone i gusti, rendendolo quindi incapace di «meraviglia, sorpresa, ammirazione» – le emozioni di cui parlava Adam Smith aprendo i suoi Saggi filosofici – incapace cioè di «curiosità» per ogni approfondimento culturale sulla memoria storica, sui fatti che lo circondano e lo condizionano, sul sapere in generale.
La cultura diventa “fine a se stessa”
Ormai la produzione di cultura di massa non è in grado di incuriosire, divertire, dilettare; appare poco o per nulla incline a coinvolgere veramente la gente comune formando intorno alle «accademie» schiere di «dilettanti» intelligenti che vogliano riappropriarsi della capacità di ragionare e, con essa, della piena consapevolezza della propria individualità e del proprio originale rapporto con le realtà circostanti, anche nell’ambito di consessi da regolare con linee guida appositamente programmate.
Così, la cultura diventa “d’élite” e strumento di potere antidemocratico
Ci si trova perciò molto spesso in presenza di una cultura inutile per larghi strati sociali, in quanto resa incomprensibile, volutamente o passivamente ostica, né si avvertono stimoli di risveglio da questo torpore generalizzato. La cultura, quindi, torna anche a essere strumento esclusivo di potere per quei ristretti circoli capaci di gestirla e di mercificarla – cultura di pochi e per pochi, per niente democratica ma nemmeno aristocratica nel senso di raffinata elevazione spirituale di alcuni eletti, giacché essi, se anche ci sono, finiscono per sviluppare un sistema autarchico, sterile, incapace di diramare stimoli effettivamente innovativi.
Teniamo a precisare che i titoletti dei paragrafi sono nostri.