
Come sappiamo, il Ministero dell’istruzione, con l’avvento del nuovo governo, è diventato Ministero dell’Istruzione e del Merito. L’aggiunta di quella parola “merito” è importante ma bisogna chiarire cosa si intende per merito.
Sul concetto di “meritocrazia” , è nata una vera e propria ideologia. Tutti siamo convinti che sia giusto che venga premiato il merito, laddove le persone siano in grado di mettere a frutto i loro talenti e, grazie a questi, riescano ad avere successo, senza altri apporti esterni, più o meno legittimi (conoscenze, clientelismi, appoggi di varia natura, ecc.). Ma già questo aspetto nel nostro Paese può essere un grosso problema. Oltretutto, il concetto di merito in Italia viene assimilato a quello di successo e si è portati a credere che chi ha successo lo abbia ottenuto con suo pieno merito.
Merito o successo?
Il filosofo Michael Sandel, nel suo saggio “La tirannia del merito” ha scritto pagine molto chiare su questo fenomeno e si è chiesto se le persone che ce l’hanno fatta siano onestamente convinte di essere le uniche artefici del loro successo. Ecco la domanda che si pone Sandel: «Chiedo se chi ha successo può dire di meritarselo. Chiedo se all’idea meritocratica secondo la quale chi ha successo merita ciò che ottiene non manca forse qualche pezzo importante, cioè il ruolo che nella vita ha la fortuna, e il nostro debito nei confronti delle famiglie, della comunità, degli insegnanti, dei paesi, dei tempi in cui viviamo, di tutti coloro che rendono raggiungibili i nostri risultati».
Non ha tutti i torti e lo sappiamo bene. Il successo personale non è solo frutto del proprio impegno e del proprio talento, come abbiamo visto, ma anche della fortuna e di molti altri fattori sociali (educazione, famiglia, ecc.). Nella nostra società, la tendenza però è quella di giustificare moralmente il successo, non tenendo conto del modo in cui si è ottenuto (sappiamo che gli italiani hanno in genere poca memoria).
E quel che è peggio si tende a condannare e umiliare chi non ce l’ha fatta, i poveri e chi, per un motivo o per l’altro, è rimasto indietro. E questo contribuisce a creare una società diseguale, nella quale il bene comune e la solidarietà passano decisamente in secondo piano mentre sono aspetti molto importanti per la vita democratica di un Paese.
Il sogno americano esiste ancora?
In Italia il cosiddetto “sogno americano”, quello secondo il quale con il duro lavoro chiunque può farcela, non è mai riuscito ad attecchire molto. Con le dovute eccezioni, la maggioranza delle persone è convinta che se non ha le conoscenze giuste o la spintarella necessaria è difficile fare carriera o soltanto trovare un posto di lavoro adeguato.
Anche per Sandel, che in America ci vive, il sogno americano è poco più di una bufala. Il mito del “self made man” sembra si sia sgretolato. Secondo alcune recenti stime la mobilità sociale negli USA (il famoso ascensore sociale) è ormai più bassa di quella di molti Paesi, anche europei, come Germania, Spagna. L’Italia no. Per “fortuna” resta “saldamente” in coda, tra i paesi industrializzati. Da noi, lo sappiamo, manca l’ascensore sociale ma non abbiamo nemmeno delle scale che i giovani possano utilizzare per salire faticosamente di qualche piano. Ed è in crescita il fenomeno dei NEET (acronimo inglese per Neither in Employment nor in Education or Training, persone che non lavorano, non studiano, non fanno formazione).
Il problema è il punto di partenza
Bisogna rendersi conto che le chance di una persona nella vita sono sempre più determinate dal punto di partenza, cioè dallo stato socio-economico e dal luogo di nascita. Di conseguenza le disuguaglianze di reddito nel tempo si radicano ed è difficile liberarle. Le eccezioni sono rare ed è per questo che quando si verificano se ne parla parecchio.
Chi ha vissuto una infanzia con problemi di privazione sociale ed educativa difficilmente potrà sottrarsi da adulto alla marginalità sociale. La povertà educativa e quella economica messe insieme producono un effetto moltiplicativo drammatico.
D’altra parte, molti sono convinti che se un giovane studia, vi siano molte più possibilità che possa salire nella scala sociale. Alla fine, però, anche l’idea che studiare e avere una laurea sia indispensabile per emergere o solo per ottenere anche un buon lavoro, oggi non sembra più così convincente.
Basta studiare per salire la scala sociale?
Non è sufficiente dire alle persone che è possibile combattere disuguaglianza, stagnazione dei redditi e perdita dei posti di lavoro studiando. Pochi ci credono. I giovani cercano strade alternative. Per assurdo, meglio i social e i talent show per sperare di emergere. E pensare che, secondo uno studio, basterebbe un aumento della mobilità sociale del 10% per spingere il Pil di quasi il 5% in più in 10 anni.
Che fare, allora? Sandel riflette sulla risposta: «L’alternativa è quella di una politica del bene comune, con al centro la dignità del lavoro e quindi il principio che chi lavora deve sempre essere ricompensato con uno standard di vita accettabile per sé e per la sua famiglia. Solo se accettiamo che il successo dei suoi individui non è il fine ultimo della società possiamo ritrovare la solidarietà di cui abbiamo bisogno».
Il bene comune? Che roba è
Ma la società è interessata al bene comune? Anche Sandel ha parecchi dubbi in proposito: «Da quarant’anni andiamo nella direzione opposta: il consumismo, il mercato, la pubblicità, dovunque guardiamo vediamo incoraggiamenti a essere noi stessi, unici, autosufficienti e meritevoli di tutto. In questo contesto ciò che mi fa sperare è che molte persone si accorgono che questo modello è insoddisfacente. (…) Le persone cercano un senso della vita più grande di quello che il consumismo e l’ideale meritocratico possono offrire. Io mi auguro che questa fame di senso, che vedo anche nei miei studenti di Harvard, spinga alla riflessione su come vediamo il nostro ruolo nel mondo e i nostri legami con gli altri».
E Sandel conclude amaramente: «È stato un errore svuotare il dibattito pubblico dalle grandi domande morali, perché senza quelle domande non possiamo avere risposte a problemi come la crescita delle diseguaglianze, il ruolo del mercato, la solidarietà sociale, la giustizia. Avremmo bisogno di un discorso pubblico moralmente più robusto di quello a cui ci siamo abituati».