Con il liberalismo sparisce la libertà come relazione?

La modernità è senz’altro il risultato della forza propulsiva del liberalismo. Ma questa ideologia non tiene sufficientemente conto della relazionalità intrinseca della persona umana, così non riesce a percepire in modo adeguato nemmeno la socialità e la stessa società e, di conseguenza, neanche i principi della solidarietà e della fratellanza. La società di solito viene ridotta alla sfera del mercato sottratta allo Stato.

La sfera pubblica viene così non solo distinta ma sciolta da quella privata. Tutta la dimensione dell’uomo che non comprende il mercato o viene relegata nella sfera privata o viene mercificata.

Il neoliberalismo e l’ideologia del New Public Management tendono, invece, a colonizzare con la loro logica competitiva e di diritto privato la sfera pubblica, che a sua volta, appartenendo alle cose del bene comune, dovrebbe essere contrassegnata prima di tutto dalla logica di libertà della società civile – e non in prima linea da quella del mercato – e dalla solidarietà e dalla fraternità che contengono anche i momenti della gratuità e della reciprocità, laddove quest’ultima non è lo scambio del mercato.

Dal liberalismo sparisce la libertà come relazione e non si considera il bene relazionale un valore e non se ne fa politica governativa e pubblica. Non vi è presente il libero associarsi per il bene comune, laddove le relazioni già in sé formano schemi di bene pubblico-privato. Ne ricadono e se ne sentono le conseguenze anche nella sfera politica, perché in questo modo sarà la sfera statuale a colmare il vuoto che provoca quasi la piena assenza di una società veramente civile non statalizzata e politicizzata dai partiti.

Una società civile esige una libertà per associarsi e per un fare libero per il bene comune di una scuola, di una contrada, di una città, di una provincia, di una regione, di una rete regionale di volontariato ecc.

(da: Jànos Frivaldszky, “L’antropologia e i principi del buon governo”, Università Cattolica Pázmány Péter, Budapest)

Il capitalismo liberale

Il capitalismo… “rifletterebbe alla perfezione la nostra natura innata, vale a dire il desiderio di commerciare, di guadagnare, di migliorare la nostra condizione economica e di condurre una vita più comoda.

Ma non credo, al di là di alcune funzioni primarie, che sia corretto parlare di desideri innati come se esistessero indipendentemente dalle società in cui viviamo. Molti di questi desideri sono il prodotto della socializzazione all’interno delle nostre società, e in questo caso all’interno delle società capitaliste, che sono le uniche esistenti

…il capitalismo liberale presenta molti noti vantaggi, il più importante dei quali è che la democrazia e lo Stato di diritto sono valori in quanto tali; insieme, concorrono a incoraggiare uno sviluppo economico più rapido, promuovendo l’innovazione e consentendo la mobilità sociale, e offrono così a tutti possibilità di successo più o meno simili.

Il venir meno di alcuni aspetti essenziali di questo sistema di valori impliciti, ossia un movimento verso la creazione di un’alta borghesia che si autoalimenta e la polarizzazione tra le élites e il resto della popolazione, rappresenta la minaccia più importante per la vitalità a lungo termine del capitalismo liberale.

Questa minaccia è un pericolo sia per la sopravvivenza del sistema stesso sia per l’attrattività generale del modello per il resto del mondo”.

(da: Branko Milanovich, Capitalismo contro Capitalismo”, Laterza Editore, Bari 2020)

La crisi del liber(al)ismo come ideologia vincente

Lo statalismo sul continente europeo e l’antropologia egoistica del liberalismo in vista di un individualismo metodologico non ci fanno accostare al bene comune. L’attuale assetto liberal-democratico ha realizzato un compromesso tra il mercato (momento egoistico) e lo Stato (momento collettivo con l’obiettivo dell’uguaglianza e della pari opportunità) che, però, nei nostri giorni rivela crescenti fallimenti irreversibili nell’Unione Europea.

Ci preme di aggiungere due spiegazioni:

a) alla connotazione del mercato: il capitalismo liberista si è distaccato notevolmente dalle origini che lo hanno ideato e ispirato, cioè dall’etica protestante. Riguardo all’egoismo si deve notare che il liberalismo moderno che si è nutrito delle idee del diritto naturale illuminista, che a sua volta fonda le radici nella tradizione greco-romano-giudaico-cristiana, si è pervertito nel liberismo “drogato”. Quest’ultimo oramai impossibilita il dispiegarsi della stessa libertà dotata di senso e mostra fenomeni caotici e autodistruttivi. Rispetto alla componente
b) dell’ uguaglianza garantita dallo Stato giova notare che il progetto del welfare state quasi unanimemente è già considerato fallito e non se ne è ancora trovata un’alternativa valida e percorribile.

(da: Jànos Frivaldszky, “L’antropologia e i principi del buon governo”, Università Cattolica Pázmány Péter, Budapest)

Libertà a braccetto con uguaglianza e fraternità

La libertà, il cui valore fondamentale è legittimamente sostenuto, deve essere integrata da altri due principi: dall’ uguaglianza e dalla fraternità.

Il maggior problema del liberalismo a nostro parere è che è quanto mai deficitario ad ideare e a realizzare connessioni valide con questi ultimi due principi: o li tralascia oppure le connessioni, e così anche i contenuti degli stessi, divengono distorti.

John Rawls

Tranne forse la teoria di John Rawls, non sono stati ancora cercati e trovati i modi di integrazione e di interconnessione tra questi principi. Finora si è rimasti alle diverse forme di combinazione della libertà con l’uguaglianza, tralasciando la fraternità, giacché si è pensato che l’uguaglianza non sia altro che la solidarietà realizzata dagli istituti dello Stato, cioè nient’altro che una solidarietà verticale (statuale) istituzionalizzata.

Adesso ci si rende ormai conto che la fraternità è qualcosa di più della solidarietà ed, inoltre, che questi principi non possono essere riassunti nell’attività redistributiva della Stato. Per poter realizzare il principio della fraternità, il terzo elemento dello slogan della rivoluzione francese, è indispensabile l’esistenza di una società civile forte, con le forme di azioni e di organizzarsi specifiche di essa.

Si deve tener presente che nessuno dei tre valori è riconducibile agli altri due, sicché ognuno porta in sé un valore a sé stante e del tutto peculiare mentre in un contesto politico ricevono il loro vero e giusto contenuto concreto solo se vengono riconnessi l’uno con l’altro in modo corretto nell’attività governativa guidata dalla virtù della prudenza politica.

(da: Jànos Frivaldszky, “L’antropologia e i principi del buon governo”, Università Cattolica Pázmány Péter, Budapest)

La mediazione e il conflitto contro l’idea individualistica

La convivenza non viene avvertita più come valore, perché l’altro non è più colui con il quale – grazie alla parola e quindi alla cultura – si condivide il dolore della non coincidenza tra soggetto e oggetto e, in sostanza, la comune fragilità esistenziale. La mediazione e il conflitto – i due elementi principali della politica – sono allora visti come un fastidio, un elemento di corruzione e di inefficienza da parte di opinioni pubbliche sempre più risentite nei confronti dell’establishment politico.

Mediazione e conflitto mettono in discussione l’idea della trasparenza e del soggetto compatto e indiviso. Gli individui che, grazie al consumo sfrenato, accedono direttamente agli oggetti, sono dunque infastiditi da una parte, dal conflitto che segnala l’alterità e l’irriducibilità e, dall’altra, dalla mediazione che rappresenta il tramite simbolico grazie al quale si cerca di confrontare l’alterità.

(da: Claudio Bazzocchi, Il misterioso zoppicare dell’uomo; indeterminazione umana, democrazia, autorità e libertà, Meltemi Editore, Roma 2020)

La libertà e le imprese

Il principio fondamentale del liberalismo è questo: quante più persone possibile dovrebbero avere la massima libertà sulla direzione che prenderà la loro vita. Espresso in questa forma, il liberalismo, come ai tempi di John Locke, è impegnato sia per la libertà che per l’uguaglianza…

Per quanto riguarda la libertà, i liberali vogliono per la persona ciò che Thomas Jefferson voleva per il paese: l’indipendenza. Quando non abbiamo altra scelta che accettare il potere di qualcun altro su di noi, non riusciamo a pensare da noi stessi, siamo limitati a condizioni di esistenza che assomigliano a una lotta senza fine per la sopravvivenza, non siamo in grado di pianificare il futuro e non possiamo possedere una dignità umana elementare. La vita autonoma è quindi la vita migliore. Abbiamo il potenziale, e siamo quindi responsabili della sua realizzazione, per essere padroni del nostro destino.

Ma allora, l’esistenza delle aziende con la loro struttura gerarchica, le loro regole amministrative, il rapporto di dipendenza che richiedono a chi lavora con loro non contrasta con l’idea che le persone sono libere, autonome e formalmente uguali?

(da: Alan Wolfe, “The Future of Liberalism”)

Liberalismo e società neoliberali

Il giurista francese Antoine Garapon rileva molto lucidamente l’abbaglio di chi si oppone al presunto totalitarismo delle società odierne neoliberali: «Il neoliberalismo trasforma il diritto privato nella propria costituzione; e fa del potere giudiziario una forma di governo.

Il totalitarismo schiaccia l’individuo? Il neoliberalismo magnifica la libertà e responsabilizza l’individuo, talvolta fino all’eccesso. Il totalitarismo si basava su una burocrazia statuale irresponsabile e improduttiva? Il neoliberalismo la riduce sempre al minimo. Il totalitarismo è nostalgico dell’unità? Il neoliberalismo spinge la divisione al suo parossismo, atomizzando il mondo in altrettante individualità.

Tutte le critiche relative al totalitarismo – la persona contro il sistema, il diritto contro l’arbitrio, i lumi della scienza contro l’oscurantismo della religione – non soltanto non colgono nel segno se riferite al neoliberalismo, ma militano piuttosto in favore di quest’ultimo. Esso si presenta infatti dalla parte della scienza, dell’individuo, del diritto, della libertà».

(da: Antoine Garapon, Lo Stato minimo. Il neoliberalismo e la giustizia, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 160)

La proprietà: diritto di usarne e di abusarne

La libertà dei liberali è in realtà prima di tutto libertà di possedere. Non risiede nell’essere, ma nell’avere.

L’uomo viene detto libero nella misura in cui è proprietario e in primo luogo proprietario di se stesso.

Pierre Rosanvallon

L’idea che la proprietà di sé determini fondamentalmente la libertà sarà peraltro ripresa da Marx. Alain Laurent definisce la realizzazione di sé come una «insularità ontologica il cui fine primario risiede nella ricerca della propria felicità».

Per gli autori liberali, la «ricerca della felicità» si definisce come la libera possibilità di cercare sempre di massimizzare il proprio interesse. «Il liberalismo», scrive Pierre Rosanvallon, «fa in un certo senso della spersonalizzazione del mondo la condizione del progresso e della libertà».

(da: Alain de Benoist, Il liberalismo contro il bene comune)

La libertà: fare tutto ciò che si vuole fino a che l’uso che se ne fa non limita la libertà degli altri

Nessun elemento dimostra che l’individuo possa concepirsi come un soggetto libero da qualsiasi obbligo di appartenenza, affrancato da qualunque determinismo. Così come niente dimostra che preferirà in ogni circostanza la libertà rispetto a qualsiasi altro bene. Una concezione di questo genere ignora, per definizione, gli impegni e gli agganci che non devono nulla al calcolo razionale. È una concezione meramente formalista, che non permette di rendere conto di che cosa sia una persona reale.

Ugo Grozio

L’idea generale è che l’individuo ha il diritto di fare tutto ciò che vuole sin tanto che l’uso che fa della sua libertà non viene a limitare quella degli altri. In questa ottica, la libertà è definita come pura e semplice espressione di un desiderio che non ha altro limite teorico all’infuori dell’identico desiderio degli altri, in un contesto in cui l’insieme di tali desideri è mediato dagli scambi economici.

È quanto affermava già Grozio, teorizzatore del diritto naturale, nel XVII secolo: «Non è contro la natura della società umana lavorare nel proprio interesse, purché lo si faccia senza ledere i diritti altrui». Si tratta però evidentemente di una definizione irenica: quasi tutti gli atti umani, in un modo o nell’altro, vengono compiuti a spese della libertà di altri, ed inoltre è quasi impossibile determinare il momento nel quale la libertà di un individuo può essere ritenuta di ostacolo a quella degli altri. (…)

(da: Alain de Benoist, Il liberalismo contro il bene comune)

Essere liberi. Vuole dire essere se stessi?

Dopo l’intervento appassionato di Giangiuseppe Pili sul tema del liberalismo, abbiamo avuto diverse segnalazioni da parte dei lettori, con contributi di vari autori che lo affrontano da diverse angolazioni: libertà, proprietà, politica, economia, individualismo, ecc. Chiunque può partecipare e contribuire.


A proposito dell’etica dell’essere se stessi, Mauro Magatti scrive: «Una delle ragioni per cui il mio libro si intitola Libertà immaginaria è che noi fantastichiamo sul fatto che dobbiamo essere noi stessi, mentre invece non abbiamo idea di che cosa voglia dire essere noi stessi, e tutto il mondo si dispone in maniera scientifica a creare delle situazioni in cui tu, in quanto senti di star bene, sei convinto che, sentendo di star bene, tu sia te stesso.

In questa cultura non sta più insieme nulla, se ciascuno si è sognato di essere se stesso, è chiaro che l’altro, gli altri, qualunque legame è appunto un “legame”, cioè una riduzione della tua libertà, e dunque qualcosa che, limitando la tua volontà di potenza, va bene per un po’, finché è sopportabile, dopodiché siamo liberi di fare quello che vogliamo.

Ne risulta un mondo di grande solitudine, di sofferenza, un mondo sadiano, in cui ci si sfrutta reciprocamente. E per un po’ ci facciamo contenti l’un l’altro… E poi che Dio ce la mandi buona».

(da Mauro Magatti, “Le contraddizioni della libertà. Logica del capitalismo tecno-nichilista” e Mauro Magatti, Silvano Petrosino e Massimo Recalcati, “Pensare il presente”, Nuova Editrice Berti, Piacenza 2013, pp. 53-54)