La motivazione. Che mi importa della cattedrale?

Qualche tempo fa, avevamo riscritto il famoso aneddoto della cattedrale, mettendo in dubbio il fatto che uno dei tre operai (il terzo) si dichiari orgoglioso per il fatto di partecipare alla costruzione di un grande progetto e che questa sola constatazione sia in grado di motivarlo adeguatamente.

Forse la maggior parte delle persone, al contrario, si riconosce nel primo operaio. Come ha fatto Theodore B. Kinni, collaboratore della prestigiosa rivista strategy+business (se volete, potete seguirlo anche sul suo blog) che ci ha scritto questa simpatica mail:

Theodore B. Kinni

I like your reworking of the story, Ugo. Being the grandson and great-grandson of Italians who emigrated to America in search of more prosperous lives, I was one of the children in the first family—and as you can probably tell, it informs everything I do.

Mi piace la tua rielaborazione della storia, Ugo. Essendo nipote e pronipote di italiani emigrati in America in cerca di una vita più prospera, ero uno dei figli della prima famiglia e, come probabilmente puoi capire, questo fatto caratterizza ogni cosa che faccio.

Theodore B. Kinni ha anche riflettuto sulla motivazione in ambito aziendale in un articolo molto azzeccato, pubblicato sulla rivista strategy+business, di cui riportiamo alcuni punti salienti.

Il piacere del lavoro in sé. L’artigianato

Richard Sennett

La morale di questa storia (della cattedrale) è che i datori di lavoro – brutta definizione che finisce per considerare il lavoratore come uno strumento da usare – devono fornire ai propri collaboratori uno scopo. Questo significa che molti lavori che vengono loro affidati uno scopo subito comprensibile non ce l’hanno e sono di per sé poco interessanti, ripetitivi, noiosi e favoriscono atteggiamenti di disimpegno, negligenza, apatia.

D’altra parte, anche convincere i lavoratori che essi stanno partecipando e contribuendo a una realizzazione di grande importanza e prestigio non risolve il problema. Un conto è un lavoro parcellizzato, da catena di montaggio, alienante e senza uno scopo immediatamente visibile, un conto, come sostiene Richard Sennett (vedasi il suo libro “L’uomo artigiano”, 2008) un lavoro artigianale qualificato che “caratterizza un impulso umano fondamentale e duraturo, cioè il desiderio di svolgere nel modo migliore la propria attività”, perché la persona può riconoscersi in quello che fa e vuole dimostrare che ne è capace, dal momento che ciò lo inorgoglisce e rafforza la sua professionalità.

Kinni fa un esempio che lo riguarda: “Sono uno scrittore e un editore autonomo, che ha bisogno di essere bravo per guadagnarsi da vivere. Perché mai dovrei fare mio lo scopo di un’azienda che sfrutta il mio lavoro? Dal momento che potrei lavorare lì solo per qualche anno e gli eventuali profitti non arrivano a me ma al proprietario?

Gig economy e lavoro da remoto distruggono la motivazione

Ma vi sono altri problemi di non poco conto. Se è importante che i lavoratori perseguano lo scopo delle aziende per le quali operano, con che spirito possono farlo se con l’avvento della “gig economy”, il 25/30 % della forza lavoro non viene nemmeno inserita nel libro paga? E come sarà possibile mantenere viva la connessione tra lavoratore e azienda dal momento che tenderà sempre più ad aumentare il lavoro da remoto?

Kinni però è fiducioso. Crede che i lavoratori, a prescindere dal fatto che siano o meno dipendenti, siano naturalmente spinti a svolgere bene il lavoro che è stato loro affidato. E i leader attenti dovranno far leva proprio su questo innato senso di responsabilità per sviluppare il loro impegno. Impegno che nasce dal gusto e dalla passione per un lavoro artigianale ben fatto.

A tal proposito, Kinni cita un libro interessante, in uscita il prossimo anno dal titolo Craft: An American History” di Glenn Adamson, in cui si rivelano le difficoltà iniziali nell’introduzione della catena di montaggio nell’ambito della Ford. Per tenere una forza lavoro costante di 14.000 operai se ne dovettero assumere nel giro di pochi anni ben 52.000 a causa dell’elevatissimo turnover.

I lavoratori rifiutavano la catena di montaggio, anche se i processi di assemblaggio, davvero disumani all’inizio, vennero man mano ridimensionati, e la Direzione fu costretta ad aumentare i salari (5 dollari al giorno in più) molto al di sopra della media del settore. Poi, si disse che l’aumento fosse stato studiato per fare in modo che i lavoratori potessero permettersi una macchina Modello T Ford. In realtà, era l’unico sistema per trattenere questi operai insoddisfatti. Quando poi tutta l’industria adottò il sistema della catena di montaggio, ai lavoratori non restò altro che accettare questa tecnica di produzione.

Glenn Adamson

Tre suggerimenti per ritrovare la passione del lavoro

Forse per fare in modo che i lavoratori ritrovino la passione nello svolgimento del loro lavoro bisogna tornare, secondo Kinni, a una visione artigianale. Non serve, quindi, convincere i lavoratori che stanno realizzando un obiettivo ideale o prestigioso per l’azienda, che non comprendono o è troppo lontano dalla loro realtà.

Per ottenere il loro impegno autentico occorrono, secondo Kinni, tre cose:

  1. Valorizzare la qualità dei lavori che vengono loro affidati, cosa oggi più semplice, grazie alle tecnologie (intelligenza artificiale, robotica, ecc.).
  2. Offrire ai lavoratori la massima autonomia nella loro attività. Ricordiamo con Adamson che chi ha trovato le soluzioni per migliorare la produzione di massa, spesso sono stati proprio i lavoratori dipendenti con le novità introdotte per rendere il lavoro che facevano più rapido e di migliore qualità.
  3. Riconoscere ai lavoratori la loro professionalità, pagandoli in base alla qualità piuttosto che alla quantità di lavoro.

Solo così, le aziende potranno trovare le giuste motivazioni per i lavoratori.

 

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